20.06 –
30.07.2023
Mattatoio, Roma
Pelanda, Foyer 1
A cura di
Johanne Affricot
Eric Otieno Sumba
Liryc Dela Cruz è un artista e regista che vive e lavora a Roma, originario di Mindanao, Filippine. L’esplorazione di Dela Cruz delle sue origini, della sua biografia e psicologia sociale è alla base di una pratica proteiforme che abbraccia film e performance, e che vede gli incontri comunitari e la creazione collettiva come strumenti al centro della sua ricerca artistica. Il suo lavoro si espande tematicamente agli ambiti della cura, delle pratiche indigene e decoloniali, del commercio transpacifico di persone schiavizzate e dei princìpi di ospitalità nelle Filippine pre- e post-coloniali.
Nella sua prima mostra personale, Il Mio Filippino: For Those Who Care To See, Dela Cruz continua la sua ricerca pluriennale sulla diaspora filippina in Italia, parte della quale è stata condotta all’interno del programma di residenze di ricerca e produzione artistica Prender-si cura (2022) del Mattatoio. Dela Cruz si focalizza sulle lavoratrici e sui lavoratori domestici, cercando di comprendere gli stati di esaurimento e le pratiche di cura e riposo associate alle loro vite.
Il Mio Filippino, titolo della mostra, fa riferimento alla diffusa abitudine di associare la comunità filippina al lavoro domestico — preconcetto che l’artista ha vissuto in prima persona al suo arrivo in Italia — limitando la possibilità di immaginare filippine e filippini al di fuori di questa particolare linea di lavoro e innescando l’impegno pluriennale di Dela Cruz sul tema.
Le lavoratrici e i lavoratori migranti delle Filippine (Overseas Filipino Workers), esaltatɜ nel loro Paese d’origine come “bagong bayani” (eroɜ modernɜ), per il loro considerevole contributo all’economia attraverso l’invio di rimesse di denaro, sono classi- ficatɜ come migranti modello e infaticabili lavoratrici e lavoratori, soprattutto nel contesto italiano. Dela Cruz critica questa struttura sociale fittizia, che esaspera la pressione esercitata sulle persone filippine ad abbandonare la propria identità a favore di una veste passiva e fedele, reificata sia nel Paese d’origine che nei Paesi in cui trovano lavoro e si stabiliscono.
La mostra presenta un’installazione video composta da quattro video, tre dei quali sono il frutto della documentazione di Dela Cruz di diverse collaboratrici domestiche filippine, riprese mentre puliscono le case dellɜ loro datorɜ di lavoro. Mostrati su schermi da 42 pollici, i video sono configurati come sistemi di telecamere a circuito chiuso utilizzati per la sorveglianza degli spazi pubblici e privati, riflettendo sui processi coloniali di controllo e razzializzazione che fissano i corpi e le identità alterizzate all’interno del loro sguardo e della loro struttura, assegnandogli contemporaneamente una posizione inferiore all’interno di una gerarchia autoreferenziale e suprematista bianca.
Attraverso giustapposizioni di immagini e composizioni sonore distopiche, i video nell’installazione evocano una coreografia del lavoro, robotico e militarizzato, in cui i gesti di cura memorizzati da un singolo corpo sono parte di altri corpi, in una disposizione impersonale e asettica, senza sogni e visioni. Il lavoro di cura, in ultima analisi, è privo di cura. È reso un lavoro invisibilizzato ed esternalizzato.
Il quarto film, presentato in formato più grande, mostra una donna che dorme, presumibilmente una lavoratrice domestica in una casa italiana. In questo lavoro Dela Cruz utilizza per la prima volta le riprese a colori, risvegliando il potere immaginativo che questi corpi possono abbracciare, immersi in un vivido paesaggio di riposo. Quasi a voler proteggere il soggetto addormentato del video nel suo momento di vulnerabilità̀, l’artista ha concepito una camera filigranata realizzata con il kulambo (un tipo di tessuto usato per le zanzariere), che crea un rifugio provvisorio intorno allo schermo. Elemento ricorrente nel lavoro di Dela Cruz, questo tessuto viene utilizzato per schermare il soggetto dallo sguardo esterno e indiscreto. La figura addormentata appare così in uno stato di calma, tranquillità̀ e decelerazione: una condizione che alimenta nuove visioni oniriche, immaginazione e narrazioni di rinnovamento, un viaggio a ritroso verso la propria geografia sociale in cui il proprio agire non è governato da standard idealizzanti o riduttivi.
La materia del suo subconscio sembra riecheggiare nello spazio espositivo sotto forma di un tappeto sonoro sia distopico che alienante, a tratti tenue e sereno. La tensione creata da Dela Cruz tra lo sguardo intrusivo e la rete che lo ostruisce aggiunge un livello fondamentale all’opera, privandola di qualsiasi intento puramente documentaristico. Dela Cruz interviene sul modo di osservare dello spettatore, sulla sua percezione del contesto, e lo coinvolge in un voyeurismo involontario, posizione in cui si trova non appena entra nella scenografia dell’installazione.
La lentezza dei film di Dela Cruz, elemento centrale della sua cifra stilistica, esamina l’idea di spazialità pubblica e privata e le costellazioni sociali delle Filippine precoloniali, nel tentativo di liberare il concetto di riposo dalle associazioni negative di pigrizia e improduttività. Nel suo lavoro, Dela Cruz espone le complessi- tà insite nel concetto di cura: modelli reificati e precisi di lavoro, riposo e identità, radicati nella complessa storia delle Filippine e nell’impatto di oltre 420 anni di colonialismo spagnolo (1521-1898), imperialismo americano (1898-1946) e occupazione giapponese (1941-1945), e della dittatura di Ferdinand Marcos Sr (1972-1986) sull’arcipelago.
Entrando e uscendo dallo spazio espositivo, il pubblico riceve un timbro sulla mano. Il testo lasciato sulla pelle riporta il titolo della mostra in lettere maiuscole: IL MIO FILIPPINO. Attraverso questa azione, Dela Cruz gioca con la gerarchia del linguaggio, fissando sul corpo del visitatore la stessa inalterabilità proiettata sulle identità delle comunità filippine e radicata nell’ideologia coloniale. Allo stesso tempo, Dela Cruz si riappropria anche delle nozioni del sé, in cui la frase “Il mio filippino” funge come un imperativo per la comunità a reclamare la proprietà del sé sociale, metaforico e reale.
Liryc Dela Cruz è un artista e regista di Tupi, South Cotabato, Mindanao, Filippine. Vive e lavora a Roma. Il suo lavoro è stato presentato ed esposto in numerosi festival cinematografici internazionali e spazi per l'arte contemporanea, tra cui: Locarno Film Festival, Matadero (Madrid), La Neomudéjar (Madrid), Maison Européenne de la Photographie (Parigi), UK New Artist, Artissima (Torino), Museo di Arte Contemporanea di Roma (MACRO), Teatro di Roma, La Biennale di Venezia e Ocean Space (Venezia).
In giovane età, ha ricevuto il Bamboo Camera Award dal padre del cinema indipendente delle Filippine, Kidlat Tahimik. È stato unǝ dellɜ collaboratorɜ di Lav Diaz, maestro del cinema indipendente filippino e mentore dello stesso artista insieme ad altre figure, tra cui Hadji Balajadia, Françoise Vergès, Simon Njami, Gutierrez Mangansakan, Chantal Akerman e Anna Daneri. Nel 2018, il Festival internazionale del film documentario di Jihlava ha riconosciuto Dela Cruz come unǝ dellɜ registɜ emergenti del movimento "Slow Cinema". Nel 2020 è stato selezionato tra tra lɜ giovanɜ registɜ emergenti di Berlinale Talents durante il 70° Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
I film di Liryc Dela Cruz sono tematicamente legati alle sue origini, alla sua storia, alla sua biografia, alla sua identità, mentre le sue performance e le sue ricerche sono incentrate sulla cura, sull'ospitalità, sulle pratiche indigene, sulle pratiche decoloniali, sulle Filippine post-coloniali, sulla tratta transpacifica delle persone schiavizzate. Nel 2021, Dela Cruz ha presentato in anteprima al Teatro India - Teatro Nazionale di Roma il suo progetto di ricerca Il Mio Filippino, sotto forma di performance, realizzata in collaborazione con lavoratrici e lavoratori domesticɜ e badanti filippinɜ. Nel 2020 il progetto è stato premiato con l’Artissima - Torino Social Impact Art Award e nel 2022 Dela Cruz ha fatto parte del programma di residenze di ricerca del Mattatoio di Roma Prender-si cura.
Nel 2022, Dela Cruz è stato selezionato come borsista della TBA21 (Thyssen-Bornemisza Art Contemporary) Ocean Fellowship, dove ha avviato Ocean as a Space of Perpetual Care, un progetto basato sulla cura e l'ospitalità indigena nelle Filippine pre-coloniali, prendendo spunto dal diario di Antonio Pigafetta. Nel 2023 è stato selezionato tra lɜ artisti in residenza dall'Academy in Exile della Freie Universität di Berlino, e come artista partecipante del Festival Santarcangelo per l'IN EX(ILE) LAB, 2023-2024. Dela Cruz è anche mentore all'École Nationale Supérieure d'Arts de Paris-Cergy, dove ha presentato la sua ricerca & Hospitality: Tools for the Revolution. Si è esibito alla 59a Biennale di Venezia, nell'ambito del Padiglione Sami e di aabaakwaad. Nel 2023 ha presentato in anteprima al Far East Film Festival di Udine la sua nuova performance di ricerca, Kay Kami Mga Mananap (Because We Are Beasts), una rivisitazione dell'artista sui concetti di intimità ed erotismo nelle Filippine precoloniali.